mercoledì 14 aprile 2021

'SPACCIOARTE' E L'ASINO BENDATO

 

Solo amarezza a Nuova Ostia nel vedere un pullman verde girare in tondo per due ore sull'asfalto dissestato di piazza Gasparri, come un asino bendato alla mola. Attorno saracinesche abbassate da anni, tetti d’amianto e palazzi che cadono a pezzi, dove oltre 5.000 persone in fragilità sono sotto sgombero per uno dei più grandi scandali di Roma Capitale.

Affermare che l’asino bendato che raglia stornelli intonati sia un “messaggio forte e decisivo nella lotta a qualsiasi forma di illegalità … e sia il rilancio e il riscatto delle periferie” rende plastiche le parole di Thomas Reid, “non esiste più grande impedimento per l’avanzare della conoscenza che l’ambiguità delle parole”.

A Roma il tema casa è legato a doppia maglia a quello della legalità.

Un asino bendato, e per questo ‘scortato’ dalle forze dell'ordine, è apparso come un’orrenda operazione muscolare travestita da arte, un’applicazione selettiva, parziale e distratta della legalità.

Decenni di abbandono delle periferie non hanno generato un nuovo pensiero che ne chieda davvero il riscatto sociale in un quadro di ripristino della legalità a partire da chi la dovrebbe rappresentare.

La città ha bisogno di costruire, con il coinvolgimento pieno degli abitanti, un progetto di recupero sociale e fisico delle periferie per trasformarle radicalmente e in cui tutti, nessuno escluso, è chiamato a partecipare e a discutere. La buona cultura è l’unica via verso la buona politica.

E proprio perché la legalità è una cosa seria non può essere ridotta né a questioni meramente di ordine pubblico, né ad esibizioni folkloristiche o sedicenti operazioni di decoro spacciate per riqualificazione urbana. Richiede una strategia complessiva, che va dagli interventi sociali all’integrazione culturale e politica. Questa è la via maestra verso una sicurezza che non smantelli le garanzie, ma le faccia penetrare più profondamente nel tessuto cittadino, se questo era l’obiettivo.

Un’iniziativa come “Spaccio Arte” appare così solo una esibizione dello “zelo dei giusti” accecando qualunque approfondimento e dibattito politico. Una rappresentazione autocelebrativa di un sedicente primato morale, che riduce una questione complessa ad uno scontro bipolare che assume tratti classisti, nell’intento fallimentare di generare nei destinatari un obbligo morale ad aderirvi, per certificare la propria appartenenza alla schiera dei migliori e finendo per amplificare archetipi ancestrali e radicati.

La “periferia” è la città, che condivide con civiltà il medesimo etimo (civitas), “la villa (cascina, podere e, per sineddoche, la campagna tutta) partorisce non solo il villico, ma anche il villano e l'inglese villain, cioè l'antagonista, il malvagio, l'irredimibile cattivo delle fiabe”, una narrazione tra le più semplicistiche, banali e scontate di una politica non più presente a se stessa.

L’obiettivo non era neppure quello di misurare la qualità della “gente” meritevole  perché diligentemente plaudente. Anzi, il flop inevitabile serviva a rafforzare la narrazione di una periferia omertosa e pertanto silente. Non c’era dunque alcuna speranza di “riscatto” per quella “piazza dello spaccio”.  E se i residenti avessero gettato pomodori dalla finestra e gridato ‘vergogna che ci fate vivere in queste condizioni abitative’ avrebbero confermato comunque la narrazione che li vuole mafiosi e violenti.

Il politico buono non è quello onesto e il popolo buono non è quello che fa i compiti a casa senza interrogarsi sulla bontà del progetto politico sotteso.

Quell'asino bendato che si aggira nelle piazze di spaccio non dovrebbe stornellare, ma essere un urlo dionisiaco.

Confondere il proprio ruolo politico travestendosi da vigile di quartiere canterino per due ore ha sancito il fallimento delle politiche di controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine e quello politico da parte dell’amministrazione, in cui permangono le condizioni politiche che ostacolano l'adesione alla legalità.

L’iniziativa non è riuscita nemmeno ad essere una valvola di sfogo simbolica e mutilata in tempi pandemici così difficili, ancora più difficili nelle “periferie”, e nemmeno è riuscita ad allestire nel virtuale la sceneggiatura di uno spazio pubblico verosimile e sempre deformabile a comando.

Questa idea di ‘spacciare’ arte su un mezzo dell’ATAC (scopiazzata malamente da altri) risponde ad una delle regole fondamentali dell'insiemistica, non si può salvare qualcuno condannando tutti. E quella piazza era già condannata. Per altro tradisce l'illusione di superare la fatica del confronto e della riflessione politica per agganciarsi a un principio insindacabile, incorruttibile e superiore, cioè quella del politico buono perché onesto. La “cosa giusta” infatti non è discutibile, non è opinabile, non si può parlarne, non la si può dibattere, non la si può criticare. Se lo si fa si diventa nemici del “giusto” e quindi malvagi, criminali, fiancheggiatori. Si può solo tacere portando la croce dell’omertoso.

E come gli antichi monarchi, le ‘autorità’ presenti, come un codazzo ad un funerale, si sono  ingraziate l’appoggio dell' ‘autorità’ religiosa per accreditare i propri messaggi. E così abbiamo visto il prete accanto alle ‘autorità’, ma non quello di Santa Monica, bensì di San Basilio.

Così è, se vi pare.

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