Sarebbe troppo lungo ripercorrere la storia della comunicazione ed in particolare quella della TV del dolore: due casi su tutti, le pubblicità di O. Toscani per la Benetton e Vermicino, che segnarono una svolta. Sono passati molti anni da allora, ma l’interrogativo posto da Aldo Grasso sulla capacità di padroneggiare i contenuti e non solo la cornice rimane senza risposta. Scriveva a proposito della diretta da Vermicino: "Era giusto, non era giusto trasmettere quella terribile agonia dal pozzo della morte? Era giusto, non era giusto puntare le telecamere su un bambino che sta sprofondando in un buco nero dove, di lì a poco, sarebbero sprofondate, con la pietà e la vergogna per la fine del povero Alfredino, tutte le nostre concezioni sulla tv, sul rapporto fra informazione e spettacolo?".
La tragedia di Vermicino non è servita a riflettere sull'opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su come trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare un nuovo genere di spettacolo basato sulla sofferenza. Lo stesso discorso vale per la fotografa protagonista di questa storia. Si chiama sciacallaggio, una moda imperante.
Un caso più recente: ricordo ancora le perplessità dei fedeli che si interrogarono sul significato profondo dell’esposizione mediatica del corpo martoriato dalla sua irreversibile malattia di Papa Giovanni Paolo II, le cui apparizioni in pubblico erano ridotte all’essenziale e, spesso, si risolvevano in una traumatica immagine di dolore e sofferenza.
L’uso del dolore, della sofferenza, non solo sono di moda, ma addirittura vengono premiati, a qualunque titolo, gli “espositori” del dolore, della sofferenza e della miseria propria o altrui. Un intervistato, magari con una carriera di tutto rispetto alle spalle, oramai non racconta di sé solo quel tanto necessario a chiarire alcuni aspetti della sua professione, o il perché di un certo impegno o di un progetto, ma solo i fatti suoi, come in una succursale del confessionale del Grande Fratello. Un reportage fotografico diventa la personalizzazione della “ricerca” voyeristica della verità (che poi non è né verità, né realtà) facendo firmare una semplice liberatoria all'uso dell'immagine. Cosa se ne faccia con l'immagine, cosa si racconti con quella immagine, è divenuto irrilevante. Le persone non sono animali dentro ad un zoo comunale.
Leggere infine i commenti di un politico, che ha avuto anche incarichi di governo della città (e dunque dei cittadini), che plaude ad un fotoracconto, perché “umanizza” una comunità, ritratta attraverso la manipolazione delle immagini e la mistificazione della realtà e l'uso disinvolto, volgare e meschino anche del dolore, della malattia, della condizione economica, di un singolo evento traumatico che assurge fintamente a regola, è semplicemente squallido. Non basta dire che la cornice è bella, bisognerebbe guardare il contenuto.
La domanda di A. Grasso è rimasta dunque senza risposta, come lui stesso affermava in conclusione del suo editoriale, "E' opportuno immettere in un circuito incontrollabile immagini che invocano solo la pietà ? Una cosa è soffrire, un'altra vivere con le immagini della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. Possono anche corromperle".
Siamo corrotti. Abbiamo perso un valore che si chiama dignità. Ripartiamo da questo.
Nessun commento:
Posta un commento