mercoledì 7 ottobre 2009

Roberto Morassut: diamo a Cesare quel che è di Cesare.

L’urbanistica è materia bella ma complessa ed esaurire in poche righe l’argomento della politica urbanistica romana del centro sinistra sarebbe non solo arrogante, ma anche poco professionale da parte mia. Assisto però da mesi ad un gogna pubblica dell’ex assessore Morassut, soprattutto per la vicenda delle Terrazze del Presidente del noto imprenditore Pulcini.
Nella puntata di Report dal titolo “I re di Roma”, andata in onda a maggio del 2008, è stata fatta una fotografia di una città gravemente malata da tempo. Basta rispolverare uno splendido film, “Le mani sulla città” di Francesco Rosi (1963), per capire che il male viene da lontano. Nel 1965, nel tentativo di curare il malato, Roma si dotò di un piano urbanistico, cioè di quello strumento con cui si cerca di controllare e contenere le patologie urbane attraverso regole che disciplinino il rapporto con la proprietà privata dei suoli, limitandone l’autonomia e inquadrandola in una visione di città. Si tratta dunque di un compromesso. L’Italia però ha una oggettiva debolezza del governo della cosa pubblica. Il futuro del territorio è stato ed è tutt’oggi affidato all’iniziativa privata in un quadro carente di regole certe e generali. Ciò è potuto accadere grazie al concorso trasversale dei governi sia di centro destra sia di centro sinistra. In parole povere, è l’economia ad aver dettato le regole a discapito dell’autonomia della politica. Questo fenomeno è stato particolarmente evidente negli anni '90, anni in cui il Ministero delle Infrastrutture ha iniziato a ricorrere in modo massiccio alle c.d. ‘attività per progetti’, esautorando così il ministero stesso dal governo dei processi urbani in un quadro sistematico che avesse al centro le esigenze delle città. Sono stati gli anni in cui nacque l’urbanistica contrattata grazie all’introduzione di strumenti chiamati ‘programmi complessi’. Anni in cui si è proceduto, anche a livello amministrativo, relativamente alle trasformazioni delle città, all’uso massiccio degli accordi di programma, cioè delle varianti ai piani regolatori. A questo si sono aggiunte, sempre in quegli anni, le politiche finalizzate al rilancio delle attività produttive sotto il profilo squisitamente economicistico e il drastico taglio della spesa pubblica nei trasferimenti di risorse alle autonomie locali, con il conseguente svuotamento delle casse comunali, che ha istigato i comuni a mercificare il proprio patrimonio andando in deroga ai piani regolatori. Tutto ciò, ha indotto a penetranti e pervasivi effetti di distorsione sull’intero ordinamento delle istituzioni e della società. ‘L’urbanistica contrattata’ si prefigura dunque come un male ben peggiore di quello della speculazione fondiaria descritta da Rosi. Dal 2001 a 2006, sotto il governo Berlusconi, il quadro allarmante sopradescritto si è arricchito di provvedimenti legislativi vergognosi. 2001: scudo fiscale che ha portato a Roma e nel Lazio una enorme quantità di denaro sporco che si è riversato nell’acquisto di attività c.d. pulite soprattutto in investimenti immobiliari. Sono seguiti a breve distanza ben due provvedimenti, quello sul cambio di destinazione d’uso e il condono edilizio (il terzo in 18 anni, unico caso al mondo). E’ in questo quadro che ‘vengono su’ Le Terrazze del Presidente. Siamo nel 1992. Morassut allora non so cosa facesse, ma di sicuro non era assessore all’Urbanistica di Roma. Ricordo che la puntata di Report aveva come oggetto le centralità urbane e la vicenda delle Terrazze del Presidente è stata affrontata perché era un caso emblematico di una piaga di ‘governo della cosa pubblica’ (nello specifico la mancata realizzazione del raddoppio di Via Acilia da parte di Pulcini è stato il ‘modus operandi’ con cui successivamente non sono state realizzate ad esempio le linee ferrate a servizio delle centralità urbane, cioè la non esecuzione delle opere a scomputo e il mancato pagamento degli oneri concessori). La vicenda delle Terrazze del Presidente è complessa e non verrà affrontata in questa sede. Dal 1992 ad oggi sono state numerose le passerelle di ogni colore politico (rassegna stampa disponibile). La trasmissione di Report ha avuto il merito di portare finalmente all’attenzione del grande pubblico e delle Procura il caso. A fine dicembre 2008 il sequestro cautelativo e i fatti che tutti conosciamo e di cui attendiamo gli sviluppi. Alcune considerazioni personali. Quelle 12 torri, di dimensioni abnormi, che svettano nel punto più alto del XIII Municipio, sono state per 16 lunghi anni sotto l’occhio visibile di chiunque, compreso quelli degli organi preposti al controllo del territorio, a volte forti con i deboli, ma deboli con i forti. Ora, è necessario sottolineare, che anche il miglior piano urbanistico è giustamente sempre e solo frutto di un indirizzo politico e che i cambi delle giunte, anche dello stesso colore politico, influiscono sulle deroghe al piano regolatore.
Dopo il ‘disegno su carta’, si passa alla fase di attuazione. La colpa dunque, di qualunque realizzazione, non è mai e solo del dipartimento di urbanistica, che offre gli strumenti per una corretta attuazione a prescindere dalla bontà della scelta, ma anche degli enti di controllo (Assessorato ai Lavori Pubblici, Sovrintendenza, uffici tecnici, ufficio condono edilizi, polizia municipale, stampa, cittadinanza attiva ecc.) che spesso e volentieri non operano nell’interesse dell’ente al quale appartengono e cioè il Comune, quindi, in ultima analisi, se stessi.
C’è un grande bisogno di pulizia nell’opinione pubblica, al limite della gogna, che è comprensibile, ma che rischia di non essere espressione di verità. Morassut è stato il più esposto mediaticamente per effetto della trasmissione e ha finito per diventare il capro espiatorio di un sistema distorto, penetrante e pervasivo delle istituzioni e della società tutta.

Le periferie di Roma sono sempre più luoghi senza identità, ma non si può pensare che soltanto con l’urbanistica la si può ritrovare. Il piano regolatore è uno strumento indispensabile, ma se manca la consapevolezza dei problemi in gioco, se viene meno la possibilità di invertire il corso delle cose, esso è uno mera conquista accademica. E’ dunque un problema di cultura generale di cui la classe politica, e non il singolo amministratore, ha una grossa fetta di responsabilità. Forse è di questo di cui dovremmo parlare.

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