giovedì 23 luglio 2020

PORTO TURISTICO DI ROMA, CONCESSIONI E FAVORI SUL LITORALE ROMANO


Ostia, sequestrato il porto turistico In manette il presidente ...

"Quando l’associazione LabUr (Laboratorio di Urbanistica) ha segnalato questi vantaggi concessi a Balini dalla pubblica amministrazione, i suoi membri sono stati denunciati per diffamazione; dopo sette anni di processo sono stati assolti con formula piena. Inoltre, la Procura ha usato le loro denunce per condannare Balini".


Come si vede oggi con le Autostrade, la questione delle “grandi opere” è strettamente legata a quella delle concessioni, diventate quasi sempre macchine per l’arricchimento di imprenditori privati a scapito di risorse importanti per la collettività. Uno degli esempi migliori è quello del Porto Turistico di Roma a Ostia, la grande opera a cui il Comune di fine anni Novanta affidò la “rinascita” del litorale romano. Il titolare della concessione, l’imprenditore Mauro Balini, è stato condannato il 27 giugno scorso a cinque anni e sei mesi per associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta, in uno dei filoni dell’inchiesta Mafia Capitale. Tutta la vicenda del porto riassume le infinite strategie con cui un imprenditore sfrutta il meccanismo della concessione per arricchirsi, togliendo agli abitanti di Ostia le spiagge, l’accesso al mare, addirittura le case. Oggi su quell’area è previsto un nuovo investimento statale di quindici milioni, fondi CIPE, ancora con la scusa di “riqualificare” l’area. A maggio abbiamo raccontato le vicende del Porto della Concordia a Fiumicino, ora parliamo di quello dall’altro lato del Tevere: il Porto Turistico di Roma.


Il progetto fu giustificato dall’allora sindaco Rutelli per far rinascere una zona impoverita dalle peggiori politiche urbanistiche dal dopoguerra a oggi. Gli abitanti dei due quartieri di Nuova Ostia e Idroscalo avrebbero dovuto ottenere lavoro e indotti commerciali dalle imbarcazioni da diporto ancorate di fronte alle loro abitazioni. Nuova Ostia è il quartiere nato dalla deportazione di migliaia di cosiddetti baraccati negli anni Settanta, e Idroscalo l’ultimo borghetto di Roma, dove è ancora più o meno tollerata l’autocostruzione. Entrambe le zone sono state tenute artificialmente fuori dalle norme per decenni: il ricatto del “degrado” e il clamore mediatico sulla “legalità” che ha investito la zona dopo l’inchiesta Mafia Capitale hanno fatto sì che chiunque si opponesse alle politiche speculative autorizzate dalle amministrazioni venisse bollato come nemico della prosperità, amante dell’illegalità e addirittura come colluso con la mafia.
Eppure, se c’è un simbolo dell’illegalità in questa parte di Roma, è sicuramente il porto, che condensa una storia di imprenditoria speculativa e di politica corrotta che dura da un ventennio. Con l’ordinanza sindacale n. 7 del 21 gennaio 1999, cinquantaseimila metri quadri di spiaggia (quindi demaniali) vengono concessi dalla regione Lazio e dal comune di Roma all’Associazione Turistica e Immobiliare S.p.A. (ATI), creata dall’imprenditore Mauro Balini. Si suppone che i soldi con cui è stato costruito il porto vengano dagli indotti dello zio, Vittorio Balini, che negli anni Ottanta aveva venduto a Silvio Berlusconi i diritti della serie televisiva Dallas. Nel giro di due anni, l’ultima fascia di litorale prima della foce del Tevere – la spiaggia che costeggia Nanni Moretti in Vespa nella famosa scena di Caro diario – viene cementificata e chiusa da un muro lungo un chilometro.
MURO E TORNELLO
Il porto viene inaugurato da Rutelli il 23 giugno 2001. L’accordo di programma tra il Comune e il concessionario prevedeva la creazione di un Collegio di Vigilanza per verificare il corretto operato della gestione, anche in termini di verifica dei bilanci dell’utenza. Questo collegio non verrà mai istituito. L’ATI, dal canto suo, non ha mai pagato le concessioni demaniali, dal giorno dell’inaugurazione fino almeno al 20 gennaio 2017; né ha mai completato le procedure per l’iscrizione del porto nella Concessione Demaniale Marittima, sfruttando una leggina per le concessioni fluviali – cosa che, da sola, varrebbe l’annullamento della concessione. Quando l’associazione LabUr (Laboratorio di Urbanistica) ha segnalato questi vantaggi concessi a Balini dalla pubblica amministrazione, i suoi membri sono stati denunciati per diffamazione; dopo sette anni di processo sono stati assolti con formula piena. Inoltre, la Procura ha usato le loro denunce per condannare Balini.
Il porto sembra progettato per impedire l’accesso agli abitanti della zona che avrebbe dovuto far “rinascere”. Dall’Idroscalo, per accedere a questa opera definita pubblica, bisogna passare un tornello di ferro che sembra disegnato per scoraggiare il transito, e che chiude la sera. Per scongiurare le proteste degli abitanti, Balini ha usato la tipica strategia del dividere per comandare: nel 2001 ha firmato un accordo segreto con un consorzio che raccoglieva diversi abitanti delle case auto-costruite della zona, impegnandoli a sostenere il porto in cambio degli allacci all’acqua e alle fogne, e di un canale privilegiato per ottenere lavoro. Le promesse non sono mai state mantenute. In più, il muro del porto blocca il deflusso della pioggia a mare: le immagini della strada inondata vengono sistematicamente usate per gettare discredito sul quartiere. Il discredito alimenta un altro progetto di Balini: quello di far demolire le cinquecento case auto-costruite dell’Idroscalo per farne una zona verde (pubblica) a uso dei proprietari (privati) degli yacht. Quando nel 2010 l’allora sindaco Alemanno cavalcò una finta emergenza a mare per far buttare giù trentacinque case, senza neanche avvisare gli abitanti che furono deportati con la forza nei residence, i loro vicini rimasti di fronte alla zona di demolizioni collegarono l’operazione alle mire espansionistiche del porto e all’accordo con il consorzio. Il consorzio infatti aveva promesso a Balini che avrebbe collaborato a sgomberare gli abitanti non consorziati. La frattura creata nel quartiere oggi è insanabile.
Nel 2013 Balini fu coinvolto nell’operazione denominata Alba Nuova della Direzione distrettuale antimafia, che portò all’arresto di cinquantuno persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Al centro delle indagini c’era anche il traffico di influenze per un’altra delle ambizioni di Balini: il raddoppio dei posti barca del porto, attraverso la costruzione di un altro braccio a mare. Balini sperava di ottenere un investimento di cento milioni da parte di Unipol, ma per ottenerlo mise in campo una strategia che coinvolgeva un generale della guardia di finanza, Emilio Spaziante, e un avvocato dello studio del ministro Tremonti, Dario Romagnoli. La squadra mobile di Roma, che intercettò l’avvocato Romagnoli per mesi per un’altra vicenda di tangenti, considera “quantomeno verosimile che Mauro Balini, Emilio Spaziante e Dario Romagnoli siano accomunati da uno spirito collaborativo di natura illecita”.
Nel 2012 Spaziante procurò a Balini un documento che questi provvide a far falsificare da un altro suo collaboratore, il narcotrafficante Cleto de Maria, per consegnarlo, taroccato, all’Agenzia delle Entrate, l’ente che può destinare un bene demaniale ai privati. L’avvocato Romagnoli intanto riuscì a coinvolgere il ministro Tremonti per ottenere il finanziamento di Unipol. A inizio 2013 il gruppo aveva trovato non solo i soldi ma il socio per l’operazione di ampliamento: l’associazione Italia Navigando, partecipata da Sviluppo Italia, quindi dal ministero del tesoro.
Nel 2013 arriva il fallimento dell’ATI S.p.A. Il pm Alberto Galanti aveva chiesto otto anni di carcere per Balini, considerando che il crack da diciotto milioni era il risultato di “un complesso disegno espoliativo” architettato dal titolare della concessione per incamerare i finanziamenti. La pena è stata abbassata perché per alcuni reati è stato disposto il non luogo a procedere: l’accusa di corruzione per Spaziante, a cui Balini aveva messo a disposizione un’imbarcazione di pregio in cambio di “condizionamenti favorevoli” per i controlli tributari, e l’accusa a Balini di aver tentato di corrompere il consigliere comunale Luca Gramazio (Pdl) per orientare la Giunta ad autorizzare l’ampliamento. Agli atti dell’inchiesta c’è la registrazione di una riunione nella quale il consigliere rimproverava Balini di non aver mantenuto gli impegni, e questo rispondeva promettendo “due unità immobiliari che garantiscono il debito”. Denaro in cambio di favori. Ma il reato è caduto in prescrizione, e Luca Gramazio oggi è libero.
NUOVE POLITICHE CLIENTELARI
Balini a Ostia è noto per le sue frequentazioni con il narcotrafficante De Maria e con il detenuto Roberto Giordano, detto Cappottone, autore dell’attentato a Vito Triassi: Balini manteneva la sua famiglia. Per i magistrati, Balini sarebbe legato niente meno che a ex membri della Banda della Magliana. Di questa rete faceva parte anche l’allora presidente del Municipio, Andrea Tassone (Pd), poi condannato nell’inchiesta Mafia Capitale, e che a poche settimane dalla sua elezione aveva dichiarato a Repubblica: “Mauro Balini è amico mio”. Nonostante queste evidenze, le varie amministrazioni (municipali, comunali e regionali) hanno continuato a concedere a Balini permessi e agevolazioni senza neanche aspettare l’esito delle indagini. A novembre 2013 l’ex comandante della capitaneria di porto Lorenzo Savarese ha ammesso che “le carte, così come predisposte, confermano l’estensione della concessione demaniale” per altri diciotto anni. “L’atto dev’essere registrato, certo, ma le ultime firme di approvazione della regione Lazio risalgono allo scorso settembre”, ha dichiarato. A disattendere il dovuto principio di cautela di fronte a questa storia di malaffare, insomma, è stato per primo il presidente della Regione e segretario del Pd Nicola Zingaretti, il quale ha prolungato la concessione a Balini fino al 2053.
L’esplosione del caso Mafia Capitale porta nel 2015 al commissariamento del Municipio di Ostia, proprio per il coinvolgimento del presidente Tassone negli affari illeciti di Buzzi e Carminati. I membri del Pd non coinvolti direttamente dalle indagini hanno cercato di fingersi paladini della giustizia e dell’antimafia, con il duplice obiettivo di salvare la faccia ma anche, paradossalmente, di assegnare altri beni pubblici ai loro amici, fuori dai controlli abituali che regolano questo tipo di concessioni. Così i favoritismi continuano anche dopo il sequestro del porto per bancarotta fraudolenta.
Dal 2013 i locali vengono posti sotto la gestione fallimentare e gettati nel grande calderone mediatico di Mafia Capitale, che con la retorica dell’urgenza e della legalità permette un enorme grado di arbitrio politico sulle assegnazioni, diventando l’ennesimo meccanismo per autorizzare politiche clientelari. Le due amministrazioni giudiziarie che hanno gestito i locali – fino a ottobre 2016 Massimo Iannuzzi, poi Donato Pezzuto – si sono caratterizzate entrambe per l’arbitrio nelle assegnazioni. Un immobile è stato destinato a diventare la nuova sede della Polizia di Roma Capitale Gruppo Mare, un gesto a forte contenuto simbolico. Ma l’immobile non ha le caratteristiche adatte e il provvedimento ha suscitato le proteste del sindacato di polizia. Nel 2017 si annuncia la creazione di una “palestra della legalità” nei locali del porto, per sostituire la palestra di Nuova Ostia gestita da Roberto Spada, il pugile arrestato nel 2017 per la capocciata al giornalista Daniele Piervincenzi. Ma la onlus che doveva gestirla, l’Ipab Asilo Savoia, viene scelta senza alcuna evidenza pubblica, senza passare per l’Anbsc (Associazione nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata), e senza l’accordo con il prefetto Vulpiani che guidava il Municipio dopo il commissariamento. L’assegnazione avviene sotto la garanzia politica del ministero di giustizia e con la copertura economica della Regione, anche se l’immobile è situato fuori dall’area demaniale, quindi fuori dalla competenza regionale, e vincolato invece all’accordo con il Comune. Il Fondo Antiusura di Ostia (Volare Onlus) la presenta come “un passo ulteriore con l’assegnazione dei locali confiscati alla mafia”. Ma anche se inquadrata in un’azione antimafia, l’accusa a Balini era di riciclaggio, impiego di proventi illeciti, intestazione fittizia dei beni e associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Non di associazione di stampo mafioso.
Dopo la vicenda della palestra, Pezzuto ha formato un protocollo d’intesa con la Federazione Italiana Vela, per realizzare nel porto un anno di attività turistiche che avrebbero dovuto coinvolgere il quartiere dell’Idroscalo. Gli abitanti del quartiere non sono mai stati coinvolti, e non si capisce quale fosse il fine sociale. La retorica “degrado/mafia” e quella parallela “riqualificazione/legalità” sono usate per legittimare assegnazioni arbitrarie e gestioni clientelari. Così come la campagna mediatica montata sulla palestra di Roberto Spada, il coinvolgimento di realtà territoriali presentate come degradate o pericolose, serve a dimostrare che queste operazioni hanno una finalità sociale, rendendole più difficili da contrastare.
In questa luce dobbiamo leggere tutti gli eventi avvenuti intorno al porto, che ci vengono sempre presentati come ingarbugliati quando non oscuri, questioni che riguardano un territorio incomprensibile, proprio per non permetterci di vedere il disegno generale. Che è, chiaramente, un durevole sistema di trasferimento di risorse dal pubblico al privato, in cui gli imprenditori ottengono tutti i benefici, il pubblico tutte le perdite, mentre i territori vengono devastati, cementificati, gli abitanti ingannati e all’occorrenza strumentalizzati. Oggi Mauro Balini è stato condannato, e da indiscrezioni sembra che sia stato disposto il dissequestro del porto da tutto ciò che è stato realizzato dal 2013 a oggi. A un anno dalle elezioni, adesso torna in auge anche il progetto del suo ampliamento, cioè la realizzazione di un nuovo braccio di due chilometri e mezzo per raddoppiare i posti barca: un’opera dannosa che determinerà la sparizione anche dell’ultima spiaggia dell’Idroscalo, che speravamo fosse stata abbandonata con il processo a Balini.
Nei mesi che seguono ci troveremo a dover combattere decine di battaglie sulle nuove grandi opere in corso di autorizzazione con la scusa della rinascita dopo l’emergenza Covid. L’esempio di Ostia ci serve a ricordare che non possiamo misurare il nostro appoggio a un progetto solo sul breve termine, e che dobbiamo invece pensare a quanti danni, ecologici, sociali e politici, possono provocare queste iniezioni di capitali e di cemento sui nostri territori.

(paula de jesus / stefano portelli  per Napoli Monitor

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