lunedì 7 dicembre 2009

Le mille ‘balle’ blu dei partiti sull’acqua.

Dopo settimane di articoli e commenti di ogni genere mi chiedo se qualcuno abbia letto la legge di riforma dei servizi pubblici locali (art. 15, D.L. 135/09), quella che impropriamente viene chiamata la legge sulla privatizzazione dell’acqua, che in realtà riguarda altri due servizi oltre l’acqua: i rifiuti e i trasporti locali. Cominciamo a chiarire alcuni aspetti.
1) La legge non impone la privatizzazione dell’acqua, pertanto il sospetto che qualcuno cerchi politicamente di cavalcare ad arte e in modo strumentale le conseguenze del decreto è fondato.
2) L’acqua non è un bene pubblico come molti sostengono, bensì privato per eccellenza. Infatti, mancano le due condizioni che ne definiscono la natura pubblica: l’assenza di rivalità nel consumo (il consumo di un bene pubblico da parte di un individuo non implica l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo allo stesso tempo: se bevo un bicchiere d’acqua nessun altro lo può bere) e la non escludibilità nel consumo (una volta che il bene pubblico è prodotto, è difficile o impossibile impedirne la fruizione da parte di consumatori, cosa che invece non accade con l’acqua visto che la paghiamo).
3) Correttamente si dovrebbe parlare della messa a gara del servizio, cosa ben diversa dalla sua privatizzazione.
Quali sono invece i problemi reali che non vengono affrontati dal decreto legge ? Primo fra tutti la regolamentazione delle gare e poi quella del settore. Attualmente il regolatore è un organo politico locale che subisce forti pressioni politiche. Il livello della qualità del servizio erogato non può essere garantito in ogni comune italiano, dal momento che la maggior parte di essi non hanno le competenze per svolgere il monitoraggio dell’acqua. Vale la pena ricordare che nel 2008 in Italia è stato disperso il 42% del volume dell’acqua erogato, contro il 10% della media europea.
Il fulcro della legge gira attorno al divieto di affidamenti diretti di un comune ad un’azienda interamente pubblica, fatta salva la condizione che il socio privato industriale (dunque non solo finanziario, bensì con compiti di gestione) detenga almeno il 40% delle quote. Sotto quella soglia la gara è obbligatoria.
Ora, le aziende pubbliche vere in Italia sono merce rara e se è vero che tante aziende pubbliche sono efficienti, ce ne sono molte che non lo sono affatto. Le aziende pubbliche efficienti non hanno problemi a vincere le gare in quanto sono in grado di essere più concorrenziali di quelle private. Il problema dunque su cui si dovrebbe concentrare la battaglia politica è un altro: avere delle vere e proprie strutture di controllo, che in Italia non sono così diffuse. Perché i partiti non parlano di questo? Perché le amministrazioni locali nascondono troppo spesso nelle loro aziende i deficit per non farli risultare dai bilanci comunali. Inoltre, è comodo utilizzare queste aziende come salvadanaio per i partiti, decidendo le nomine e la gestione reale degli appalti e delle assunzioni per fini elettorali. Dunque le amministrazioni locali non hanno interesse ad occuparsi solo di legiferare e regolare come sarebbe invece auspicabile.
Non c’è alcuna base economica nell’affermazione che il D.L. ridurrà l’efficienza del servizio e aumenterà le tariffe. E’ dimostrato infatti che le aziende a capitale misto sono più spesso efficienti di quelle totalmente pubbliche, ovviamente se si tratta di aziende “appetibili”. In caso contrario, e qui sta il vero rischio, le aziende pubbliche vengono spesso vendute fintamente a privati che in realtà sono solo soci di comodo. E’ necessario ricordare che il settore idrico ha bisogno di investimenti immensi (si parla di decine di miliardi di euro) e i costi dovranno essere coperti necessariamente da prezzi più alti a prescindere da chi sia il gestore, pubblico o privato. Questo aspetto è noto da almeno quindici anni, cioè dalla legge Galli del 1994, quando al governo c’era C.A.Ciampi, mentre è del ‘96 il provvedimento per l’adeguamento dei prezzi dell’allora ministro A. Di Pietro nel primo governo Prodi, che prevedeva un adeguamento dei prezzi in funzione degli investimenti effettuati con il consenso dell’Autorità di ambito (che è espressione dei Comuni).
La liberalizzazione dei servizi locali è dunque un’operazione corretta, fondamentale ed etica per uno sviluppo industriale di un paese, in grado di portare benefici per tutti. Il ruolo che la politica deve però assumersi è quello di emanare regole e controlli, lasciando l’operatività della programmazione alle aziende private o a partecipazione mista.
Quello che si sta mettendo a gara è il servizio più che la costruzione della rete idrica, che invece può essere gestita come "lavori pubblici". Non ci fa ben sperare il curriculum dell’Italia nell’ ambito delle gare, un po’ perché se ne fanno poche (visto che nella maggioranza dei casi si fanno affidamenti diretti), un po’ perché il quadro di regole, al cui interno queste gare vengono effettuate, è schizzofrenico. Il problema dunque più delicato rimane quello dell’Authority e di questro forse mi aspetterei di sentir parlare i partiti.
Personalmente dunque non condivido il polverone politico che si è alzato sulla necessità che il servizio rimanga nelle mani di imprese pubbliche, che fin’ora hanno gestito in modo inefficiente, anche perché di imprese pubbliche veramente gloriose io non ne ricordo, mentre non ho dimenticato la memoria corta degli italiani, sempre pronti a lamentarsi dei "carrozzoni di stato" che oggi invocano in nome di un ‘bene pubblico’ che i realtà non è. Ma di fronte alla sora Lella che mi dice, “privatizzano l’acqua, c’è scritto sul giornale” , riesco solo a rispondere con la battuta di una famosa bollicina di una nota pubblicità dell’acqua “C’è qualcuno ?”

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