Caro Filippo,
Mi permetto di fare alcune considerazioni su quanto sta accadendo al Teatro del Lido. Abbiamo fatto diverse riunioni che hanno avuto come nodo centrale la questione dell’occupazione del teatro come gesto inevitabile. Per molti di noi non è stato facile accettarlo perché di fatto si tratta di una estrema 'ratio' che fonda le sue radici in un gesto di illegalità.
Abbiamo stabilito tre obiettivi comuni (oggi vedo che sono diventati solo due) e soprattutto la necessità di costituire un movimento non ‘minuto’ o semplicemente resistenziale per poter fare davvero la differenza.
Credo che siamo tutti consapevoli che l’azione collettiva è oggi ancora più difficile di un tempo perché la sovrapposizione fra spazio e classi sociali si è storicamente indebolita per cui è sempre più difficile dar vita a una nuova base sociale per i movimenti urbani, ma soprattutto è molto difficile tenere alta la tensione politica.
Abbiamo ragionato su ciò che era possibile fare. Su quali fossero i punti di partenza su cui basarsi per uscire positivamente dallo stallo in cui versa una spazio pubblico come quello del Teatro del Lido, che è di tutti. Il periodo che viviamo, di forte crisi, non è facile per alcuno. Non ho personalmente però mai dato alla parola crisi il significato di sconfitta, arretramento, regressione, catastrofe, ma semplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile, rottura, quindi, dalla quale si può uscire regredendo o progredendo, dirigendosi verso una situazione peggiore o una migliore.
Non ho mai ritenuto sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare, mitigare meccanismi in sé perversi, ma sono convinta che la svolta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto nettamente diverso e alternativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gradualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascuno dei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o alle quali si concorre. E poiché sono convinta anche dell’intrinseca positività dell’uomo ho anche fiducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un possibile futuro, esistano nel presente se guardiamo con sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Naturalmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, del “pensiero unico”, utilizzando invece le lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle convinzioni che liberamente ci siamo formati.
Da urbanista mi permetto di ricordare che nella nozione di spazio pubblico della città c’è non solo l’affermazione della sua necessità, ma vi sono anche le regole che lo governano, regole democratiche, non l’anarchia.
Ho ritenuto che volessimo fare un’esperienza nuova, più alta, che non si limitava all’occupazione di uno spazio come obiettivo finale, né tanto meno all’autogestione dello stesso. Questa è una forma di protesta fragile, abbarbicata al “locale”. Il “civis”, quello vero, riconosce il ruolo insostituibile della presenza pubblica, che vede come interlocutore essenziale le istituzioni che hanno il dovere di farsi carico della gestione dei beni pubblici e di rappresentarne il pensiero condiviso. Questo punto è scomparso dagli obiettivi.
La battaglia del Teatro del Lido non è la battaglia dei centri sociali, ma avrebbe dovuto essere la battaglia della cittadinanza tutta, una battagia che non va confusa con quella del Polo Natatorio, con quella dell’Idroscalo, né con quella di Via Senofane o di Via Luson (per citarne alcune). Affermare che quello spazio è di chi lo occupa fisicamente e che ritiene di acquisirne così tutti i diritti, anche di rappresentatività, compreso quelli di esclusione degli altri, significa non aver maturato come “civites” il significato più alto di spazio pubblico. E per me è una sconfitta intellettuale.
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